Sono lieto di presentarvi questo articolo decisamente ricco ed approfondito di Matteo Orilia, dedicato all’unità delle virtù nella filosofia greca classica, in particolare in Socrate, Aristotele e Platone. L’articolo è così ricco che l’aggiunta di qualsiasi altro particolare è assolutamente inutile! Vi lascio dunque alla lettura!
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Il direttore, Mattia Mandalà
1. L’etica della virtù
Tutto ciò che attiene all’anima, preso in sé stesso non è né utile né dannoso, ma diventa dannoso e utile nel momento in cui si aggiungono la saggezza o la stoltezza.
(Platone, Menone, 88c9-d1)
Come si deve agire moralmente? Come posso sapere cosa fare? Supponiamo che abbia la possibilità di compiere un’azione buona, o un gesto di gentilezza, nei confronti di una persona anziana bisognosa di aiuto nel portare le buste della spesa. Che cosa sarebbe opportuno fare? Sono obbligato a compiere un atto di gentilezza? È ragionevole che io compia un atto di gentilezza, data la conseguenza che da esso consegue? È giusto che io compia un tale atto di gentilezza?
Tra le teorie etiche maggiormente discusse, esplorate e sostenute dai filosofi contemporanei vi è sicuramente la Virtue Ethics (VE d’ora in avanti), o etica della virtù1. Essa ha radici nel pensiero greco classico, poiché suoi padri furono Socrate, Platone e Aristotele2.
La VE venne tenuta in gran riguardo almeno fino all’Illuminismo, quando subì, poi, una battuta d’arresto dovuta principalmente alle tesi deontologiche di Kant e alle tesi consequenzialiste dei filosofi analitici.
È solo nel 1958, quando la filosofa Gertrude Anscombe mostrò che né la prima teoria né la seconda potevano soddisfare i requisiti che una teoria etica adeguata avrebbe dovuto fornire, che la VE ritornò con forza ed efficacia nel dibattito accademico.
Ella sosteneva che le etiche deontologiche, fondate sulla nozione di dovere, non sono altro che secolarizzazioni dell’etica giudaico-cristiana. La cogenza del dovere, in quanto norma, è dovuta alla presenza di Dio, ossia il legislatore. Venendo meno il legislatore, non è possibile, secondo Anscombe, sostenere una teoria deontologica, cioè una posizione di chiaro spirito legalista, in modo serio e coerente.
La teoria, infatti, non sarebbe ben fondata senza il legislatore3. In merito alla “legislazione autonoma” kantiana, secondo cui è l’Io che fonda la legge morale, Anscombe sostiene che una tale posizione è semplicemente incoerente.
Le teorie consequenzialiste, invece, non sembrano ad Anscombe fornire una spiegazione corretta degli elementi della nostra ordinaria psicologia morale. Una teoria consequenzialista, per esempio, non può avvalersi di giustificazioni, o ragioni, che procedano a ritroso per spiegare un certo atto. Se S ha ucciso P e la sua giustificazione è “ho ucciso P perché P aveva ucciso mio fratello e volevo vendicarmi”, allora S sta rendendo ragione di una sua azione etica (immorale) non riferendosi a una conseguenza, bensì a una causa4. Sembra, quindi, che il ragionamento di Anscombe sia il seguente:
- Se l’etica deontologica e quella consequenzialista sono false, allora la VE è la sola teoria adeguata da sviluppare.
- L’etica deontologica e quella consequenzialista sono false.
- Quindi, la VE è la sola teoria adeguata da sviluppare5.
Ma che cos’è, in effetti, l’etica della virtù? Torniamo alla supposizione iniziale. Cosa fare? Il deontologo sosterebbe che è mio dovere aiutare l’anziana signora perché conformerei la mia azione a una legge morale del tipo “fa’ agli altri ciò che vuoi gli altri facciano a te”, mentre il consequenzialista sosterrebbe che un tale atto è da perseguire perché massimizza il benessere generale. Il teorico della virtù, invece, per quali ragioni propenderebbe al fine di giustificare la sua azione? Egli direbbe che aiutare la signora anziana è un atto caritatevole, e poiché la carità è una virtù, allora è un atto moralmente e intrinsecamente positivo, quindi da performare6.
Perché la VE è così strettamente connessa alla lezione degli antichi filosofi greci? Probabilmente perché nessuna versione contemporanea della VE ha fatto mai a meno dei tre princìpi etici condivisi dalla filosofia greca classica: virtù (aretè), saggezza pratica (phronesis), fiorire interiore (eudaimonia). Ma cosa sono e cosa rappresentano, esattamente, questi tre “oggetti” dell’etica?
In genere si traduce la parola greca aretè (ἀρετή) con “virtù”. Bisogna fare attenzione a tale traduzione perché una virtù, nel senso greco, presenta un carattere performativo che potrebbe mancare alla sua corrispondente italiana. Una virtù, infatti, è un’eccellenza, o meglio, un tratto eccellente del carattere. La sua sfera semantica non è, tuttavia, strettamente di ambito morale. Ogni cosa ha una sua aretè7. In generale, possiamo intendere la virtù come:
[…] the quality or set of qualities, whatever that may be, that makes something outstanding in its group.8
La virtù di un coltello da cucina, per esempio, sarà tagliare un certo tipo di carne e non un altro. La virtù di una antilope sarà correre velocemente affinché possa sfuggire a un predatore. La virtù di qualunque cosa, perciò, “indica la sua capacità funzionale, ossia il possesso di una disposizione tale da consentirle di assolvere perfettamente alla sua funzione” (Ferrari 2016, p. 25). La virtù morale di un essere umano, perciò, sarà la sua capacità di agire nel modo migliore e più corretto. Due, comunque, sono le principali definizioni teoretiche della virtù morale: quella socratico-platonica, per cui la virtù è conoscenza di ciò che è buono, e quella aristotelica per cui la virtù è uno stato abituale tendente al giusto mezzo.9
Il secondo indispensabile principio è quello della phronesis10. Il motivo essenziale per cui dobbiamo presupporre che una certa forma di saggezza pratica sia in gioco e sia attiva nel momento in cui siamo virtuosi è che non è possibile essere virtuosi senza applicare correttamente una certa virtù. Ma questa applicazione corretta è possibile solo se si dispone della capacità di riconoscere quelle situazioni in cui un’azione e non un’altra ci rendono performativamente eccellenti. Questa capacità è la phronesis.11 Che la phronesis sia una condizione necessaria per la virtù è considerato vero da Platone nel seguente passo del Menone (88a5-b5, tr. ita a cura di Ferrari, F., 2016, che traduce phronesis con “saggezza”. Si tenga presente, comunque, che Platone usa indistintamente ed equivalentemente i termini saggezza, intelligenza, conoscenza):12
SOCR. Dobbiamo allora indagare queste cose a proposito dell’anima. Non esistono realtà che chiami temperanza, giustizia, coraggio, facilità di apprendere, memoria, magnificenza e tutte le qualità simili a queste?
MEN. Sì.
SOCR. Considera se quelle tra queste qualità che non ti sembrano essere conoscenza ma altro dalla conoscenza a volte risultino dannose, altre volte utili. Per esempio il coraggio, se non è saggezza ma una specie di temerarietà: non accade che quando un uomo è temerario senza intelligenza, viene danneggiato, quando invece agisce con intelligenza ne ricava vantaggio?
MEN. Sì.
SOCR. E questo vale anche per la temperanza e la facilità di apprendere: accompagnate dall’intelligenza le cose che impariamo e sulle quali ci formiamo si rivelano utili, senza di esse dannose?
MEN. Assolutamente. […]
SOCR. Allora, se la virtù è una delle cose che si trovano nell’anima ed è necessario che sia utile, essa deve essere saggezza, dal momento che tutto ciò che attiene all’anima preso in sé stesso non è né utile né dannoso, ma diventa dannoso e utile nel momento in cui si aggiungono la saggezza o la stoltezza. In base a questo ragionamento la virtù, per essere utile, deve essere una forma di saggezza.13
Aristotele, invece, si occupa della phronesis ritenendola la capacità del ben deliberare (proairesis) su ciò che è bene e utile non negli ambiti particolari, ma in ciò che è la vita buona in generale (Etica Nicomachea, VI, 1140a24-28). Poiché, poi, nessuno delibera su ciò che può essere diversamente da come è o da come sarà, allora segue che la saggezza riguarda ciò che può essere diversamente. In altre parole, chi delibera bene è colui che tende al miglior bene pratico sulla base di un ragionamento calcolante, o sillogismo pratico (Etica Nicomachea, VI, 1141b8-14). In effetti, per Aristotele, la phronesis è una condizione sufficiente per rendere un uomo virtuoso:
Proprio come diciamo che alcuni pur compiendo azioni giuste non sono ancora giusti, come per esempio coloro che compiono le azioni prescritte dalle leggi malvolentieri, per ignoranza o per qualche altra causa, e non le compiono per esse stesse […], così, a quanto pare, è possibile compiere ciascuna di quelle azioni con una certa disposizione, in modo tale da essere buoni: voglio dire, ad esempio, sulla base di una scelta, e avendo come fine le azioni stesse che vengono compiute. Ora, la virtù rende corretta la scelta, ma ciò che per natura deve essere compiuto in vista di quella non spetta alla virtù, ma a un’altra facoltà.14
Aristotele
La facoltà che Aristotele ha in mente è la saggezza pratica, che a partire da disposizioni naturali e abituali è il solo mezzo in grado di rendere l’uomo moralmente virtuoso15. Non è, infatti, possibile essere virtuosi senza deliberare bene, cioè con saggezza pratica, ovvero senza esercitare la parte razionale dell’anima che è l’aretè umana16.
Infine, rimane da analizzare l’eudaimonia. Questo termine è stato spesso tradotto con “felicità”, tuttavia la traduzione è imprecisa. Non perché i traduttori siano incapaci, bensì perché non esiste un equivalente termine semplice per esprimere lo stesso spettro di significati che il termine greco copriva. L’eudaimonia è una sorta di auto-perfezionamento, una sorta di compimento di sé in quanto uomini, indi per cui i traduttori anglosassoni hanno preferito spesso il termine flourishing. Sia per Socrate che per Platone e Aristotele, l’eudaimonia è il bene più grande della vita morale umana, in quanto essa è cercata per sé sola e non in vista di altro. Come lo stesso Aristotele (Etica Nicomachea, I, 1098b30–1) nota, una delle concezioni tradizionali sostiene che l’eudaimonia è una virtù. La posizione di Aristotele è una difesa filosofica, potremmo dire, di questa concezione. Egli, tuttavia, non sostiene che l’eudaimonia sia una virtù, bensì che essa sia un’attività virtuosa. Vivere “eudaimonisticamente” consiste nel fare qualcosa, non nell’essere in una certa condizione d’animo: cioè nell’esercitare la parte razionale dell’anima17.
Platone, invece, sostiene che l’attività virtuosa è sufficiente e necessaria per raggiungere l’eudaimonia. È una questione di cui egli si occupa in lungo e in largo nella Repubblica, in cui il suo Socrate deve confutare e scardinare le tesi di Trasimaco, il quale sostiene che essendo la giustizia e le virtù in generale una forma di contenimento delle passioni, esse non possano condurre l’uomo giusto alla vita felice18. Tale discussione si svolge per lo più nel libro I (352d-354a), in cui ci si interroga sul modo di vivere adatto affinché si diventi beati e felici, ma è nel corso di tutto il dialogo che la questione verrà risolta. Nel libro IV sarà, infatti, stabilito che la giustizia è la salute dell’anima e che, pertanto, solo la vita giusta e virtuosa può fornire all’anima la felicità (444d4-9).
Infine, nel libro X della Repubblica (621d) Platone risponderà chiaramente sostenendo che la vita giusta, cioè secondo virtù, è sufficiente e necessaria all’eudaimonia, proponendo anche quella fantasiosa immagine escatologica che è il mito di Er19. Nel Gorgia, inoltre, egli mostra di avere già chiara la relazione fra aretè ed eudaimonia (507a1-c8), sostenendo che la vita virtuosa rende felici, la vita che persegue l’ingiustizia e tutti gli altri “mali dell’anima” (i contrari delle virtù, ossia i vizi) conduce, invece, all’infelicità, intesa come disarmonia delle parti dell’anima con sé stesse e con le altre. Un passo in tal senso rivelatore è esposto in Gorgia, 470e8-11 (tr. ita. a cura di G. Reale):
POLO. Ma come? Tutta la felicità consiste in questo?
SOCR. Secondo me, sì, Polo. Infatti io dico che chi è onesto e buono, uomo o donna che sia, è felice, e che l’ingiusto è malvagio e infelice.
Parafrasando logicamente le sue parole, quindi, possiamo vedere come ciò che Platone asserisce è: (a) la virtù, posseduta da chi è onesto e buono, è sufficiente per essere felici; (b) chi non è virtuoso (l’ingiusto) è infelice. Ma la contrapposta di (b) è (b*) chi è felice è virtuoso. Questo significa che la virtù è anche condizione necessaria per l’eudaimonia.
Fatta questa lunga introduzione alla VE, a partire dalle radici filosofiche degli antichi filosofi, possiamo ora occuparci di uno dei temi più controversi dell’etica: le virtù formano un’unità? Se sì, che tipo di unità? In altre parole: chi possiede una singola virtù, non le possiede al contempo tutte quante? O è possibile possederne una senza possederne un’altra?
2. Le virtù e la loro relazione: unità o bicondizionalità?
La tesi dell’unità delle virtù pare sia stata elaborata per la prima volta da Socrate. Essa è uno dei più antichi “teoremi filosofici” a noi noti e, non a caso, è stata adottata sia da Platone sia da Aristotele. La posizione socratica, tuttavia, è quella che ha dato vita al maggior dibattito in seno all’etica analitica contemporanea. In particolare, si è cercata di dirimere la questione in merito alla natura di una tale unità.20 Dov’è, però, che Socrate parla di unità delle virtù? La sua teoria non può che essere ricercata all’interno dei dialoghi giovanili di Platone, dove – si suppone – questi si limitò a riportare con il minor distacco possibile le lezioni del maestro21. Questi dialoghi, in particolare, sono il Lachete, il Protagora e il Gorgia. Per i nostri fini, sarà sufficiente occuparsi del secondo dialogo citato.
Socrate si sta occupando delle virtù cardinali, o demotiche, che sono giustizia, coraggio, temperanza, santità e saggezza. Egli, interrogando il sofista Protagora, che si dichiara maestro di virtù, chiede se parlando di tali virtù ci si riferisca ad esse come fossero parti di un unico intero, oppure se ognuna di esse sia parte di una singola cosa a sé stante. Protagora sostiene – e questa dovrebbe essere anche l’opinione di Socrate22 – che le virtù sono parti di un unico intero e che esse sono in rapporto l’una con l’altra come “le parti del volto stanno al volto intero”23. Al che, Socrate gli chiede se gli uomini partecipano chi di una, chi di un’altra virtù, oppure se chi ne ha una allora le ha necessariamente tutte.24 Protagora sceglie il primo disgiunto: si impegna a sostenere che le virtù sono diverse e che, essendo diverse, ognuna ha una sua funzione specifica e delle sue caratteristiche proprie.25
Segue, perciò, che è ben possibile che gli uomini partecipino di una virtù pur non partecipando di un’altra.26
Protagora, però, non è attento come vorrebbe sembrare. Infatti, aggiunge, poco dopo, che la saggezza è la più importante delle virtù.27
Quest’ammissione gli sarà fatale ai fini argomentativi, perché per Socrate la virtù è una forma di conoscenza (del bene).28
Questo significa che ogni virtù singolarmente considerata implica una specificazione ulteriore della conoscenza del bene in una situazione così-e-così. Per esempio, se la virtù in sé è la conoscenza del bene, allora il coraggio sarà la conoscenza del bene in situazioni di pericolo, la temperanza sarà la conoscenza del bene in situazioni in cui bisogna frenare i propri desideri pur avendo la possibilità di perseguirli oltre misura e così via per le altre virtù demotiche. Ma se ogni virtù singolare è conoscenza del bene più qualcos’altro, allora ogni virtù singolare implica la conoscenza del bene, cioè la virtù in sé. E questo è sufficiente per sostenere che le virtù formano un certo tipo di unità. L’unità della virtù, però, è una tesi che va chiarita e Socrate intenderà farlo ragionando intorno alla natura della relazione fra le virtù con sé stesse e con ogni altra.
Socrate, perciò, procede tentando di dimostrare che per ogni virtù vale una sorta di auto-predicazione e per ognuna rispetto alle altre vale una vera e propria predicazione paolina.29 Consideriamo prima il caso dell’auto-predicazione di ogni virtù intorno a sé stessa. Ecco un passo molto interessante del dialogo:
SOCR. Analizziamo le caratteristiche di ognuna di esse [le virtù]. Innanzitutto ciò: la giustizia è qualcosa, o niente? A me sembra che sia qualcosa; a te?
PROT. Anche a me.
SOCR. Quindi? Se qualcuno ci domandasse: “Protagora, Socrate, ciò che avete appena menzionato, la giustizia, è essa stessa giusta o ingiusta?” io gli risponderei che è giusta; e tu cosa risponderesti? Come me o diversamente?
PROT. Come te.
SOCR. La giustizia deve essere giusta; non diresti anche tu così?
PROT. Sì.
SOCR. Se dopo di ciò, ci domandasse: “Voi dite che esiste anche una santità?” credo che diremmo di sì. E se ci chiedesse se anche questa è qualcosa, noi credo diremmo ancora di sì. Se, poi, ci chiedesse pure: “La santità è per sua natura santa o no?” da questa domanda io sarei sconvolto e gli risponderei: “Parla bene, uomo! Difficilmente qualche altra cosa sarebbe santa se non lo fosse la santità!” e tu? Non risponderesti proprio così?
PROT. Senza alcun dubbio.30
Sembra chiaro, quindi, che per Socrate ogni virtù è predicata di sé stessa.31
Egli non fornisce una ragione esplicita del perché si debba asserire una tale auto-predicazione. Possiamo, però, ricavare noi qualche ragione plausibile in merito. Supponiamo che esista qualcosa, un predicato, come l’F-ità. Della F-ità può essere detto soltanto che essa è F. Sostituendo, per esempio, ad F la parola “giustizia”, allora otterremo che la giustizia è giusta. Se la giustizia fosse ingiusta, allora a fortiori essa sarebbe non giusta, ma questo è assurdo. E così via per le altre virtù.
Appurata l’auto-predicazione, a Socrate resta da provare che ognuna delle virtù si predichi dell’altra. Cioè egli deve provare la predicazione paolina per ogni virtù entro l’insieme delle virtù, ovvero deve provare: che la giustizia sia santa, moderata, coraggiosa e saggia; che la santità sia giusta, moderata, coraggiosa e santa; che la temperanza sia giusta, santa, coraggiosa e saggia; che il coraggio sia giusto, temperante, santo, saggio; che la saggezza sia giusta, temperante, santa, coraggiosa. Una volta provato ciò, Socrate potrà affermare con forza la tesi secondo cui le virtù formano un’unità. Questa è sicuramente una tesi contro-intuitiva, dato che molti di noi sarebbero orientati a credere che se un uomo, per esempio, è coraggioso non è detto che sia anche moderato in ogni situazione. Il ragionamento di Socrate, prendendo come esempi solo due virtù, cioè saggezza e giustizia, è questo:
- Vi è una somiglianza fra tutte le virtù. (Premessa)
- Questa somiglianza consiste nell’implicazione della saggezza. (Premessa)
- Per ogni termine esiste un solo contrario. (Premessa)
- La stoltezza è il contrario della saggezza. (da 3)
- Chi si comporta ingiustamente, si comporta stoltamente. (da 1 e 3)
- Chi si comporta saggiamente, si comporta giustamente. (da 3 e 5)
- Chi si comporta giustamente, non si comporta stoltamente. (da 2 e 5)
- Chi non si comporta stoltamente, si comporta saggiamente. (da 3 e 7)
- Chi si comporta giustamente, si comporta saggiamente. (da 7 e 8) 32
Da questo argomento, segue che chi si comporta giustamente si comporta saggiamente e chi si comporta saggiamente non può non comportarsi anche giustamente; per cui, le due virtù si implicano a vicenda. Socrate non dovrebbe avere troppe difficoltà a ricreare il medesimo argomento per le altre virtù, tuttavia la reticenza e la dabbenaggine di Protagora, unitamente col peculiare atteggiamento eristico del sofista, gli impediscono di elevare la discussione a un livello logicamente più oneroso, oltre che dialogicamente dispendioso.33
Data per buona la replica dell’argomento (1)-(9) in merito alle altre virtù, si finirebbe per dimostrare che tutte le virtù si implicano a vicenda, avvalorando perciò la tesi della bicondizionalità: il vero uomo virtuoso non può essere saggio e al contempo non possedere le altre virtù, così come non può possedere una qualunque virtù senza possederle tutte (Vlastos 1972).
3. L’argomento aristotelico per l’unità delle virtù.
Abbandoniamo Socrate (e, quindi, anche Platone)34 e facciamo un salto in avanti: cosa pensava Aristotele dell’unità della virtù? Sappiamo che Socrate e Aristotele possedevano due definizioni diverse di virtù35, tuttavia, entrambi argomentavano a favore della tesi dell’unità. Consideriamo l’argomento di Aristotele, che sembra più limpido di quello socratico:
Inoltre si potrebbe anche confutare l’argomento con il quale uno eventualmente stabilisca che le virtù sono separate l’una dall’altra, sostenendo cioè che lo stesso individuo non è ugualmente ben disposto per natura verso tutte le virtù, di modo che avrà già acquisito l’una quando ancora non avrà acquisito l’altra: ciò può accadere per quanto riguarda le virtù naturali, ma non può accadere per quanto riguarda quelle secondo le quali uno è detto buono in assoluto [le virtù morali, dette in senso proprio]: insieme alla saggezza, che è una sola, gli apparterranno tutte.36
Aristotele
Possiamo esplicitare l’argomento di Aristotele come segue:
- Se S ha una certa virtù, allora S possiede la phronesis.
- Se S possiede la phronesis, allora S ha tutte le virtù.
- Se S ha una certa virtù, allora S ha tutte le virtù.37
La premessa (1) può essere giustificata come segue: per Aristotele esistono disposizioni naturali verso un certo nobile fine, di cui godono i giovani e gli adulti che non posseggono una conoscenza (in senso forte) del fine dell’azione morale38; un bambino, per esempio, può essere naturalmente disposto a compiere quotidiane azioni di gentilezza verso il prossimo, ma senza compiere un’azione saggiamente deliberata, costui non sarebbe propriamente virtuoso. Se S riesce a trasformare queste virtù naturali in virtù morali, allora S è detto buono in senso assoluto. Ciò che permette questa trasformazione è, appunto, la phronesis. Infatti, ogni azione morale tende a un fine; alla saggezza pratica compete stabilire il fine dell’azione, mentre alla virtù, singolarmente intesa, pertiene la realizzazione del fine39. La saggezza pratica, quindi, è condizione sufficiente per essere virtuosi (EN, 1144b13-17). Nella premessa (1) essa è, però, presentata come condizione necessaria, ovvero come conseguenza di un’azione virtuosa. Aristotele dice che non è possibile essere buoni senza essere saggi (EN, 1144b31), il che significa che per un qualunque soggetto S, se S è buono allora S è saggio; questa è la condizione necessaria che stavamo cercando. Se, infatti, S fosse buono in senso proprio ma non saggio, allora non disporrebbe della virtù morale ma della disposizione naturale a compiere una certa azione per un certo nobile fine. Ma per ipotesi S è buono in senso proprio, quindi è impossibile che possegga solo la virtù naturale.
La premessa (2) è, in parte, già stata giustificata, essendo la phronesis una condizione sufficiente per essere virtuosi. Perché, però, se S è saggio allora segue che S abbia tutte le virtù? Secondo Aristotele, la phronesis è uno stato abituale che, unito a un sillogismo pratico, assicura all’uomo saggio la conoscenza di un orthe logos, cioè un corretto discorso, in merito al bene e al male in generale (EN, 1140b3-7). Data questa generalità della saggezza, allora essa è in grado di individuare in qualunque situazione quale sia il fine, il bene da perseguire. Poiché, poi, ogni singola virtù ha un suo ristretto campo applicativo (il coraggio per le situazioni temibili, la temperanza per le situazioni in cui bisogna controllare le passioni, la giustizia per le situazioni in cui bisogna ristabilire o mantenere una certa proporzione e così via) che sempre e comunque per fine un bene, e poiché la phronesis è condizione sufficiente per l’essere virtuosi, allora segue che la phronesis è capace di indicare per ogni situazione quale sia il bene da perseguire a colui che sia saggio. Ma questo equivale a dire, ovviamente, che l’uomo saggio, se sa quale sia il fine di ogni azione, è virtuoso, cioè possiede tutte le virtù.
La premessa (3), infine, è una semplice concatenazione logica fra l’antecedente della (1) e il conseguente della (2); e questo pone fine all’analisi dell’argomento aristotelico.
Sembra, quindi, che le virtù, formando un’unità grazie alla phronesis, si implichino indirettamente l’una con l’altra.
Bibliografia
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Driver, J., 2018, Gertrude Margareth Elizabeth Anscombe, in “The Stanford Encyclopedia of Philosophy”.
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Vlastos, G., 1972, The Unity of Virtues in the “Protagoras”, in “The Review of Metaphysics”, 25, pp. 415-458.
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Wilkes, K. V., 1979, Conclusions in the Meno, in “Archiv für Geschichte der Philosophie”, 61, pp. 143-153.
Note
- Hursthouse & Pettigrove 2018: “Virtue ethics is currently one of three major approaches in normative ethics. It may, initially, be identified as the one that emphasizes the virtues, or moral character, in contrast to the approach that emphasizes duties or rules (deontology) or that emphasizes the consequences of actions (consequentialism).”
- Come è noto, Socrate non lasciò nulla di scritto. Tuttavia, è possibile rintracciare le sue tesi in merito alla virtù negli scritti giovanili di Platone, in particolare Eutifrone, Lachete, Protagora formano un trittico illuminante in merito alle discussioni morali di Socrate. Per quanto concerne Platone, egli si occupa della virtù, autonomamente e con maturità, in vari dialoghi: Menone, Repubblica, Fedro soprattutto. Aristotele discute della virtù in Etica Nicomachea principalmente.
- Una critica simile all’etica deontologica è presentata da Annas (2015, p. 11), quando sostiene che riferendoci a individui che compiono atti spregevoli, come torturare animali o picchiare anziani indifesi, noi pensiamo “che tipo di persona potrebbe fare una cosa del genere?”, ritenendo che ciò che a questi individui deplorevoli bisogna imputare non è certo il fallimento del riconoscimento di una certa obbligazione morale, perché essi sono esempio, invece, di fallimento del carattere, i.e. della virtù interiore. Secondo Annas, i principali motivi per cui si compiono dei crimini sono dovuti a difetti del carattere quali: egoismo, avidità, codardia, insensibilità, apatia, piuttosto che mancato riconoscimento di obblighi o leggi morali.
- Anscombe 1958, p. 7 riferendosi all’etica deontologica scrive: “It would be most reasonable to drop it. It has no reasonable sense outside a law conception of ethics; they are not going to maintain such a conception; and you can do ethics without it, as is shown by the example of Aristotle. It would be great improvement if, instead of ‘morally wrong,’ one always named a genus such as ‘untruthful’, ‘unchaste’, ‘unjust’”. Alle pp. 10-11 si occupa, invece, del consequenzialismo.
- In Driver 2018 è presente non solo (una forma semplificata di) questo modus ponens, ma anche il modus tollens che contro-argomenta la posizione di Anscombe.
- Hursthouse & Pettigrove 2018. Si noti che le tre maggiori teorie etiche non sono esclusiviste, cioè il fatto che la VE si occupi precipuamente della virtù non implica che le altre due teorie non possano dare una definizione nei loro propri termini della virtù. Per esempio, per il deontologo la virtù sarà il tratto posseduto da coloro che onorano il proprio dovere, mentre per il consequenzialista la virtù sarà il tratto che genera le migliori e più buone conseguenze. La VE, invece, rinuncia a definire le virtù in base a un concetto ritenuto più fondamentale, assumendo che sia esso stesso il concetto fondamentale da cui partire per ottenere una teorizzazione solida della morale.
- Per Platone, per esempio, sia gli enti inorganici (Repubblica I, 353a1-b4) sia quelli organici presentano una loro aretè (Repubblica I, 335b8), che va intesa, quindi, come la disposizione esclusiva o condotta nel modo migliore da parte di una cosa nei confronti della realizzazione di una funzione (ergon).
- Nehamas 1985, p. 4.
- Platone espone a più riprese questa definizione, in particolare in Protagora 352c3-7, Menone 88a1-89a5, Repubblica VI, 505b5-10. Aristotele definisce la virtù nel modo suddetto in Etica Nicomachea, II, 1106a13-14, 1106b14-15 e 1106b36-1107a1-4.
- Molto efficace la traduzione inglese “practical wisdom”. Aristotele definisce la phronesis come “stato abituale veritiero, unito a ragionamento pratico, che riguarda ciò che è bene e male per l’uomo” (Etica Nicomachea, VI, 1140b3-7).
- Hoursthouse & Pettigrove 2018.
- Wilkes 1979, p. 149, n. 8
- Un altro luogo in cui Platone specifica che la virtù non può darsi senza phronesis è in Eutifrone 280b1-281e1.
- Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1144a14-21.
- Ivi, 1144b13-17: “quando uno avrà acquisito il ben dell’intelletto, l’agire sarà differente, e lo stato abituale, pur essendo simile a quello naturale, sarà virtù in senso proprio [cioè morale, n.d.c.]. […] e di queste, quella in senso proprio non si genera senza saggezza”, tr. ita. a cura di Natali, C., 1999. Ulteriormente specificato anche al passo 1145a3-5.
- Per i filosofi greci l’anima era ciò che noi oggi chiameremo mente. Sull’ergon propriamente umano, Aristotele si è espresso in Etica Nicomachea, I, 1098a12-20.
- Per Aristotele, comunque, l’attività virtuosa non è sufficiente per raggiungere l’eudaimonia. Infatti, ad essa devono aggiungersi alcuni beni quali l’amicizia, la famiglia, l’indipendenza economica e così via (Etica Nicomachea, I, 1153b17-19). Ciò non toglie che, dato per scontato questo ruolo della “fortuna” per la felicità, è comunque la virtù a giocare un ruolo deliberato e fondamentale per giungere all’eudaimonia.
- Una posizione simile era già stata sostenuta da Callicle, nel Gorgia, un personaggio privo di qualunque inibizione etica. Campione di oratoria, allievo di Gorgia, quindi sofista nel senso più proprio del termine il cui solo fine nelle discussioni era la vittoria. Anch’egli, similmente a Trasimaco, sosterrà che la giustizia è il diritto del più forte
- Secondo Vegetti (2007, pp. 217-218) il mito di Er in chiusura del libro X della Repubblica avrebbe la sola funzione di esortare coloro che non sono abituati né orientati all’argomentare filosofico ad agire virtuosamente. Spesso, comunque, Platone fa ricorso ai miti per anticipare ai suoi lettori/ascoltatori idee per cui ancora non possiede un argomento solido.
- Si veda Vlastos 1973, pp. 221-265 e Annas 1995, The Morality of Happiness, pp. 73-84.
- Vlastos 1994, cap. I e III.
- Cfr. Menone 73a9-79c2. Qui Socrate mette in scena una lunga difesa argomentativa della distinzione parte/unità, seppur indirettamente e per analogia con la nozione di figura geometrica, che caratterizzerebbe la virtù morale.
- Protagora, 329e9-10
- Ivi, 329e11-14.
- In questa prima parte del dialogo sembra che Protagora non scelga la tesi in base a ciò che egli stesso crede o preferisce, ma in base a un principio – di chiaro spirito relativistico – secondo cui è indifferente il contenuto della tesi per cui si argomenta, ciò che invece è determinante è il modo eristico dell’argomentazione che può condurre il sofista alla vittoria dell’agone dialogico. Nel corso della discussione, infatti, Protagora a volte sceglie una tesi, altre volte la sua contraria, a volte sceglie di difendere l’opinione del senso comune, a volte quella di alcuni sapienti, non curandosi delle sue personali convinzioni. Socrate si dimostrerà, comunque, sufficientemente abile da condurre il suo interlocutore all’impasse teorica.
- Protagora, 330a1-330c1.
- Ivi, 330a1-2: tale ammissione sarà utilissima per l’argomento (1)-(9) che esporremo a breve, in cui figura come premessa (2); cfr. Menone, 88a5-b5
- In questa parte del dialogo vediamo all’opera un lampante esempio di metodo elenctico socratico. L’interlocutore di Socrate, infatti, sostiene p. Socrate chiede all’interlocutore l’assenso (ad hoc) su q e r. Sia q, sia r sono vere. La congiunzione q & r implica non-p, che è ciò che Socrate sostiene tacitamente. Quindi la posizione dell’interlocutore risulta confutata, in quanto il suo è un insieme di premesse contraddittorie; se q & r implica non-p, allora p è falsa. Si veda, per ulteriori informazioni, Vlastos 1994, cap. I.
- Protagora, 330b5-330e1. Vlastos 1972 ha sostenuto che le virtù si implicano l’una con l’altra, ma che l’auto-predicazione sia una fallacia socratica, in quanto si attribuisce a un soggetto universale il suo stesso predicato. L’attribuzione, secondo Vlastos, dovrebbe essere portata dal soggetto universale ai soggetti individuali che lo esemplificano. (Egli parla di predicazione paolina perché Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, dice “la carità soffre”).
- Protagora, 330b6-330e2, traduzione mia.
- Trabattoni (2004) sostiene la validità logica di questa auto-predicazione, in quanto la giustizia è l’unico soggetto a essere tale in modo assoluto e perfetto a prescindere dai casi particolari, diversamente da Vlastos (1972) e Taylor (1991) secondo i quali Socrate sta attribuendo erroneamente a un soggetto universale un predicato che andrebbe applicato a soggetti individuali.
- Protagora, 331a6-333c10. Anche nel Lachete (197e-199e)Socrate si occupa di un argomento simile a partire dal coraggio. Sulla validità di questo argomento e della sua interpretazione in relazione alla definizione di coraggio data nel Protagora, si espresso in modo pungente Vlastos (1994, cap. V, par. 2). Un analogo argomento si ritrova in Gorgia, 506c5-507c10, dove si dimostra che se l’anima è temperante, allora è anche saggia, giusta, santa e coraggiosa.
- Protagora, 335b1-6.
- Per la posizione più spiccatamente platonica si veda Repubblica, IV, 428a5-433d5; posizione che comunque non si discosta in maniera antitetica da quella socratica.
- Per Socrate e Platone, la virtù è conoscenza del bene come espresso in Protagora 352c3-7, Menone 88a1-89a5, Repubblica VI, 505b5-10. Per Aristotele, la virtù è uno stato abituale tendente al giusto mezzo, di cui lo Stagirita ci informa in vari passi dell’Etica Nicomachea, II, 1106a13-14, 1106b14-15 e 1106b36-1107a1-4.
- Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1144b32-1145a2; tr. ita a cura di C. Natali.
- Ho preferito lasciare il termine greco, tuttavia sarebbe stato equivalente usare il termine italiano “saggezza”, o, ancor meglio, l’inglese “practical wisdom”. In merito a una discussione critica dell’argomento aristotelico si veda Telfer 1989.
- Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 1144b2-17.
- Ivi, 1145a4-5.
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