Beneficio in Seneca. La morale perduta! Di Matteo Orilia

beneficio

Introduzione.


La morale è l’insieme dei costumi e dei comportamenti degli esseri
umani, mentre l’etica è lo studio della morale. Compito dell’etica è anche
quello di descrivere le dinamiche dei comportamenti in uso presso gli
antichi. In questo articolo, perciò, ci occuperemo di un aspetto che al giorno
d’oggi è andato perduto e che principalmente riguarda l’etica dei benefici.
Intuitivamente vi sono molti modi in cui si può rendere un beneficio: un
uomo incontra un altro che zoppica e decide di accoglierlo sul suo carro, un
affamato bussa alla porta dell’oste che decide di donargli il cibo avanzato
del giorno, aiutare una signora anziana a trasportare i sacchetti della spesa
ecc. Gli esempi sono molti, ma il nostro compito è scoprire cos’è che risulta
comune in tutti questi casi.
Il beneficio è una concreta elargizione di un bene. Nella storia di Roma
antica, i benefici erano parte di quella pratica che prende il nome di
evergetismo. Cicerone nel De officiis ne parla a più riprese. Ma che cos’è
l’evergetismo? Il termine deriva dal greco antico εύεργετέω (compiere
buone azioni) ed è un neologismo coniato dal professore di letteratura e
lingua latina André Boulanger nel 1923.
Nella società romana la pratica era estremamente diffusa, infatti, tale
società era pensata come una grande famiglia strutturata come segue:
familia – gens – societas. La familia era il nucleo familiare in cui i rapporti
di parentela erano più stretti e al cui vertice vi era il pater familias, che
poteva disporre di un potere pressocché assoluto rispetto agli altri
componenti della famiglia. La gens era un insieme di famiglie che
condividevano un antenato comune, la cui appartenenza era indicata dal
cognomen comune. Infine, la società era la struttura politica che tutelava
tutte le gentes dello Stato romano, in cui l’imperatore era il garante dello
status quo. In tale contesto, le donazioni che periodicamente venivano fatte
ai poveri, da parte dell’imperatore (si pensi a Nerva o a Traiano, che
istituirono delle donazioni alimentari per sostenere la piccola proprietà
terriera), erano reputate come un esempio in grande di quella pratica
evergetica condotta nel contesto quotidiano, una pratica, peraltro, già cara ai
greci.
Ma sulla natura dei benefici elargiti in questo modo, come sempre, i
filosofi non erano universalmente d’accordo. Cicerone pensava che il
beneficio fosse possibile solo tra individui appartenenti a classi sociali
distinte, di cui il benefattore deve verosimilmente essere un patrizio e il
beneficiato deve essere un plebeo o un nullatenente. Insomma, vi è una
disparità di ceto tra chi dona il beneficio e chi lo riceve e questa differenza
contribuisce alla buona salute dello Stato, quindi, della società (De officiis,
I, 41). Un’opinione, come vedremo, che Seneca avversa nel libro III del suo
De beneficiis. Ma chi era Seneca? Non solo un filosofo stoico ma, forse, il
più grande esponente della filosofia a Roma. Infatti, per fare il bene morale,
per Seneca, non basta la conoscenza – tesi già nota presso gli antichi, a
partire da Socrate fino ai primi stoici – ma bisogna aggiungervi la retta
volontà, o voluntas. Anzi, proprio la voluntas coinciderà con quella
disposizione d’animo che è il vero criterio che dirime un beneficio da ciò che non lo è. Un concetto introdotto in maniera innovativa proprio dal
filosofo romano.

Che cos’è un beneficio?


Seneca, in quanto stoico, credeva che il solo bene fosse la virtù. Ma
quando a uno stoico viene chiesto “che cos’è il bene?”, la risposta è “ciò che
è vantaggioso”. In altre parole, il bene è ciò che procura un beneficio. 3
Fatta questa premessa, che cos’è un beneficio? È una domanda non
semplice, Seneca dedica ai benefici in generale ben sette libri del suo De
beneficiis, il più lungo dei trattati filosofici senechiani, ma alla questione
della definizione solo il primo. Egli è interessato al lato pratico
dell’argomento, infatti scrive all’inizio del primo libro:
Tra i molti e vari errori di quanti vivono in modo dissennato e
inconsulto vi sono questi due, o ottimo Liberale, che quasi non saprei
come distinguere: non siamo in grado né di dare né di ricevere
benefici.

In altre parole, Seneca si concentra sul come dare e ricevere benefici,
piuttosto che su che cosa un beneficio sia. A fortiori, possiamo affermare
che il filosofo romano ha per oggetto della sua ricerca il modo giusto di
condurre la propria vita, sia dal punto di vista soggettivo sia dal punto di
vista della società, piuttosto che costruire una scienza teoretica dei benefici. 5
Ciò detto, è necessario specificare la natura del beneficio per poter
afferrarne meglio la dinamica relazionale e pratica.
Che cos’è un beneficio? A questa domanda è possibile dare due risposte,
con senso diverso ma non distaccato. Consideriamo il seguente caso: una
donna adotta un cagnolino abbandonato al canile e così lo cresce, lo nutre,
lo rende felice. Possiamo dire che il beneficio della donna verso il cane sia
stata l’azione in sé, cioè l’averlo adottato, quindi, aver firmato dei
documenti d’adozione. Ma questi documenti, direbbe Seneca, non sono il

beneficio in sé e per sé: sono solo la materializzazione del beneficio. Infatti,
tale materializzazione è soggetta alla casualità degli eventi: i documenti
potrebbero essere stati compilati male, o essere andati perduti per
negligenza, tuttavia, il beneficio che la donna ha reso al cagnolino sarebbe
ancora valido. Cos’è allora che fa dell’azione della donna un beneficio vero
e proprio? Risposta:
C’è una bella differenza tra la materializzazione del beneficio e il
beneficio stesso. In altre parole, né dell’oro, né dell’argento, né alcuno
dei quei doni cui si attribuisce il più grande valore sono in senso
proprio un beneficio, lo è invece la disposizione d’animo dell’autore.

Per «disposizione d’animo» Seneca intende la voluntas, o volontà.

Questo sentimento razionale, infatti, è manifestazione della virtù del benefattore e
dipende interamente dalla sua scelta morale. La materializzazione del
beneficio, invece, dipende non solo dal benefattore, ma anche dalla sorte
della materia che si dona e da quella del beneficato. Il beneficio in sé e per
sé è, dunque, una buona azione volontaria e razionale che nessun agente
esterno può infirmare. Insomma, tutte quelle cose fisiche che vengono
donate e prendono il nome di beneficio sono dette beneficio per omonimia,
non per sinonimia. La definizione del beneficio è la seguente:
Che cos’è dunque un beneficio? Un’azione di benevolenza che arreca
gioia e la riceve procurandola, caratterizzata da un’inclinazione e da
una spontaneità naturali in quello che si fa. Perciò, non ha importanza
che cosa venga fatta o data, ma la disposizione d’animo con cui questa
cosa viene realizzata: il beneficio infatti non consiste in quanto viene
fatto o dato, bensì nel sentimento di chi ne è l’autore.

Seneca usa questo argomento per rafforzare la sua tesi: la materia del
beneficio (il denaro, un’occupazione, del cibo, una casa ecc.) non è né
buona né cattiva, poiché con del denaro, per esempio, possiamo tanto
sovvenzionare attività che portano la pace, la felicità e la prosperità per le
persone in difficoltà, tanto finanziare guerrafondai e signori della guerra che
diffondono morte, dolore e povertà. Insomma, ogni oggetto che si dona
come beneficio è soggetto a questa polarità. Ma l’azione del donare, che è
tale se e solo se si possiede la retta voluntas, trascende questa polarità ed è
buona in sé in quanto mira al bene del beneficato, a prescindere da quello
del benefattore. Per sottolineare l’importanza della volontà, Seneca scrive a
Liberale di quest’altro esempio: se due schiavi venissero mandati a cercare
Platone e il primo lo cercasse ovunque in Atene, dall’Accademia al Pireo,
ma non trovandolo tornerebbe indietro a mani vuote, e se il secondo non lo
cercasse da nessuna parte ma avendolo incontrato davanti casa per puro caso
tornerebbe indietro con Platone, allora dovremmo lodare il primo per la sua
volontà ben riposta piuttosto che il secondo la cui volontà era orientata a
fare altro.

Sembra appurato, quindi, che un beneficio non consiste solo della
materia donata, ma soprattutto della volontà con cui si è compiuto e dall’atto
che è stato performato.

Come dare e come ricevere benefici?


Come bisogna donare un beneficio è una questione che, per definizione,
richiede che si specifichi un criterio. Tale criterio è individuato da Seneca
nella razionalità. Infatti, se un uomo elargisse benefici senza senno e senza
misura, in modo del tutto casuale, non possiederebbe la retta volontà e, in
più, potrebbe con le sue azioni arrecare un danno più che donare un bene, in
quanto potrebbe beneficare persino le persone malvagie. La volontà, quindi, si dirige nel modo corretto con il ragionamento: per gli stoici, infatti, la virtù
dell’intelligenza è la virtù fondamentale. La ragione farà pervenire a persone degne il nostro beneficio, ne regolerà l’entità e la quantità, ci farà donare senza pensare al contraccambio e, in generale, definirà la misura del beneficio da donare. In altre parole, senza ratio non c’è beneficium.

Per convincerci della centralità della ragione possiamo considerare i casi in cui
non dare un beneficio è un beneficio, o casi del beneficio negativo: se un
pazzo ci pregasse di fornirgli una pistola o un coltello per uccidere un
criminale, non sarebbe benefico rendergli questi oggetti, perché il suo
giudizio non solo è offuscato dalla sua follia, ma potrebbe anche utilizzare
questi strumenti contro sé stesso, oltre che contro altri (compresi noi). Nei
casi del beneficio negativo, la ragione esercita un compito inderogabile:
deve stabilire se sia lecito o meno beneficare in base alle informazioni
disponibili e solo dopo il suo verdetto la volontà potrà procedere a far
eseguire l’azione vera e propria. Donare un beneficio, quindi, non richiede
solo la volontà di farlo per il bene altrui, ma anche un calcolo razionale
preliminare che guida la scelta. Non a caso, scrive Seneca:
Ogni bene infatti è difficile da raggiungere, ma anche ciò che al bene
si avvicina: perché questo non solo deve essere compiuto, ma deve
esserlo secondo ragione. […] Così, dobbiamo dare e ricevere nel
modo in cui la ragione ci indica. E questa stabilirà come prima cosa
che non dobbiamo ricevere indiscriminatamente da tutti.

Da qui in poi ci si rivolgerà ai due quesiti pratici: come dare un
beneficio? Come accettarlo?
Per quanto concerne la prima domanda, Seneca è piuttosto chiaro e
sostiene che bisogna donare il beneficio allo stesso modo in cui vorremmo
riceverlo da un nostro benefattore. Quindi, non dovremmo chiederglielo, ma
dovrebbe essere un’azione compiuta interamente da costui, di sua totale
volontà. Inoltre, il beneficio reso deve procurare felicità e gioia a chi lo dà,
infatti, non vorremmo che il nostro benefattore si sentisse obbligato a farci
dono di qualcosa: il donare controvoglia riduce il beneficio a un peso per chi

lo riceve. Poi, non bisogna nemmeno donare troppo tardi, infatti, se
qualcuno ha donato in ritardo è perché ci ha pensato molto e, indeciso fino
all’ultimo, ha infine calcolato di darcelo, ma solo perché, forse, si è
convinto che glielo restituiremo. In ogni caso, donando in ritardo ha dato
prova di non voler donare per lungo tempo. Seneca scrive:
Esaminiamo ora, ottimo Liberale, ciò che ancora rimane della parte
precedente, ossia in che modo debba essere dato un beneficio,
questione sulla quale, credo, indicherò la soluzione più semplice:
doniamo nello stesso modo in cui vorremmo ricevere. Soprattutto
volentieri, prontamente, senza alcuna esitazione.

E una volta donato, il benefattore dovrà subito dimenticare quel che ha
dato. Lo scopo del beneficio, infatti, non è quello di ricevere un
contraccambio, ma semplicemente quello di procurare all’altro un bene. Chi
non avendo dimenticato di aver beneficato, iniziasse a ricordare al
beneficato del servizio reso, risulterebbe odioso e si finirebbe per rendere
difficile al beneficato essere grato verso il suo benefattore. Se ci si
aspettasse di ricevere un contraccambio, allora si tratterebbe di una
relazione tra creditore e debitore, anziché quella che si verifica tra
benefattore e beneficato. Prima di rispondere al secondo quesito, quindi,
concentriamoci sulla relazione che si istaura tra benefattore e beneficato a
beneficio avvenuto: è una relazione d’amicizia. Infatti, nell’amicizia i due
amici si mettono l’un l’altro sullo stesso piano. In altre parole, considerarsi
dei pari volendo il bene dell’altro come fosse il proprio è la condizione
sufficiente e necessaria per essere amici. Contro la tesi ciceroniana per cui
la relazione di beneficio è possibile solo tra individui di classi sociali
diverse, Seneca argomenta anche che persino per uno schiavo è possibile
beneficare il proprio padrone: quando il primo non si limitasse al servizio

assegnatogli dal padrone ma facesse di più di quanto prescritto, allora si
tratterebbe di una relazione d’amicizia e perciò di beneficio. Lo schiavo,
infatti, non dona in quanto schiavo, ma in quanto uomo – per inciso, lo
schiavo è tale non nell’animo ma soltanto nel corpo e, perciò, la sua capacità
di beneficare anche al padrone è perfettamente legittima e, anzi, tutelata
dall’etica senechiana –, e tra uomini è sempre possibile diventare amici.
Peraltro, una relazione analoga si verifica tra l’insegnante e l’allievo. Infatti,
l’allievo è verso il suo insegnante legato come verso un amico, perché il
precettore ha rinunciato a istruire altri studenti per dedicarsi soltanto a
quello specifico ragazzo o a pochi altri, indi per cui l’allievo dovrà essere
riconoscente verso il praeceptor amicus. Allo stesso modo, il precettore ha
messo il bene dell’allievo tanto in alto da poter considerarlo come il suo
stesso bene, anche dall’altro lato della medaglia, dunque, è presente un tipo
di relazione amicale.
Esaminiamo la seconda questione adesso: come ricevere un beneficio?
Innanzitutto bisogna ricevere solo da persone il cui gesto potremmo
ricambiare. Infatti, se il beneficio dà luogo a una relazione d’amicizia, allora
è chiaro che vorremmo essere amici di persone buone e, soprattutto, di
persone che potremmo beneficare a nostra volta. Contrarre una relazione
d’amicizia con persone la cui sola presenza sarebbe per noi una tortura, è
controproducente. Bisogna accettare i benefici delle persone oneste, perché
solo verso queste potremmo essere riconoscenti. La riconoscenza, infatti, è
la virtù del beneficato. Come bisogna ricevere un beneficio, quindi? Con la
riconoscenza immediata, o gratitudine, lasciandola trasparire nel momento
stesso in cui accettiamo il beneficio: la nostra gioia sarà motivo di felicità
per l’amico che si è reso nostro benefattore. Scrive Seneca:
Da chi dovremo ricevere? Per risponderti mi servirò di poche parole.
Dovremo ricevere da coloro ai quali avremmo potuto dare.

Quando giudicheremo che è il caso di accettare un beneficio,
accettiamolo con gioia, senza nasconderla, in modo che il nostro
benefattore la noti e ne tragga un giovamento immediato. È infatti un
motivo legittimo di gioia vedere un amico felice. […] Chi ha ricevuto
un beneficio con gratitudine, ha già saldato la prima parte del suo
debito di riconoscenza.

Ma se il beneficio consiste nella corretta disposizione d’animo con cui lo si
rende, allora in che cosa consisterà un beneficio ricambiato? Non molto
sorprendentemente, nella retta voluntas con cui riceverlo, ossia con la
riconoscenza e la volontà stessa di beneficare l’altro qualora se ne presenti
l’occasione. La retta volontà si può ricambiarla solo con una altrettanto
retta volontà. Se, infatti, un beneficio non si può toccare con mano – non
potest beneficium manu tangi (I, 5.2) – allora un beneficio in contraccambio
non potrà che essere allo stesso modo legato alla disposizione d’animo di
chi lo rende.

Princìpi e parametri della scelta del beneficio.


Sebbene il solo obiettivo di un beneficio sia il vantaggio di chi lo riceve
(IV, 9.1), esso non deve essere dato senza ragione (IV, 10.1-2). Donare
avendo per principio di scelta soltanto il vantaggio del beneficato
condurrebbe a delle scelte irrazionali, quindi, a scelte immorali che non
arrecano un reale beneficio al ricevente. In altre parole, tenendo fermo il
principio iniziale, Seneca specifica dei parametri aggiuntivi che possono
orientare la scelta concordemente col principio del vantaggio del ricevente.
Beneficare significa scegliere e questa scelta va fatta non solo guardando
alla retta voluntas di chi riceve, infatti, si dovrà donare innanzitutto a chi
sarà riconoscente piuttosto che a chi, pur essendo in grado di ricambiare
materialmente, non sarà grato verso di noi; tuttavia, oltre alla nobile
disposizione d’animo, bisognerà interrogarsi anche in merito (i) a chi dare,
(ii) quando dare, (iii) come dare, (iv) il motivo del dare e, infine, (v) le
conseguenze del dare. Questi cinque parametri rendono la scelta consistente, solida e, in definitiva, razionale a tutto tondo. Seneca è molto
chiaro quando sostiene che l’idea del bene, da sola, non può guidare la
nostra scelta. Anzi, proprio a quest’idea del bene dell’altro dobbiamo
aggiungere i cinque parametri specificati poc’anzi: se fosse solo l’idea del
bene a guidare le nostre azioni, allora potremmo finire per far del bene
anche a persone malvagie che non meritano di ricevere quanto richiedono,
perché lo userebbero per ferire, depredare e prevalere sugli altri.
In nessun’altra occasione siamo più attenti nel dare, mai sottoponiamo
le nostre scelte a un esame più rigoroso che quando, essendo venuto
meno ogni interesse, si para dinnanzi a noi solo l’idea del bene.
Il principio che regola lo scambio dei benefici riguarda la virtù del
carattere di benefattore e beneficato: il primo deve donare con la giusta
disposizione d’animo e il secondo ricevere con riconoscenza. Non a caso,
Seneca afferma che «per dimostrare la propria riconoscenza è necessario
avere un’anima virtuosa» (III, 2.2): il vantaggio principale cui il beneficio
mira è dare al ricevente la possibilità di essere virtuoso, attraverso la
pratica della gratitudine che rende buono il suo carattere. Nella relazione di
beneficio, quindi, tra benefattore e beneficato c’è un rimando di
atteggiamenti virtuosi. Possiamo giustificare la tesi senecana con il seguente
argomento, dando per assunte le premesse implicite al contesto stoico nel
quale ci si muove:
(1) Bene = virtù.
(2) Beneficio virtù.
(3) Virtù ⇒ qualità del carattere.
(4) Beneficio ⇒ qualità del carattere.
(5) Qualità del carattere ⇒ proprietà immateriale.
(6) Beneficio ⇒ proprietà immateriale.
In altre parole, poiché solo bene è la virtù – premessa stoica – e la virtù è
una qualità del carattere e questa è a sua volta qualcosa di immateriale,
allora il vero beneficio, che implica la performatività di un’azione secondo virtù, è anch’esso immateriale. Ciò detto, vi sono esigenze pragmatiche che
non possono essere ignorate e che rendono l’argomento (1)-(6) insufficiente
a orientare da solo la scelta morale sul chi e come dare il beneficio.
Possiamo schematizzare i criteri di scelta del beneficio come segue:

Se il principio del vantaggio del ricevente fosse negato, allora il beneficio
non sarebbe attuabile neanche se i parametri secondari fossero
soddisfacibili. Il principio (0), tuttavia, non può guidare la scelta da solo e
necessita dei parametri per rispondere alle esigenze della vita quotidiana.
Insomma, ciò che è opportuno donare, come e a chi donarlo, perché donarlo
e quando, sono questioni di sfondo considerate singolarmente, ma insieme
al criterio principale esse rendono più adeguato al contesto il nostro
beneficio, perfezionando la nostra scelta. Poiché la razionalità ammette
gradazioni – discendere in un fiume per salvare una persona che sta
annegando è razionale, ma farlo con le dovute precauzioni è più ragionevole
che farlo senza – è buona norma cercare di rendere le nostre scelte il più
razionali possibile.
Seneca spesso usa degli esempi per esplicitare il modo in cui si esegue
una scelta che implichi un riferimento a uno o più dei criteri secondari.
Possiamo anche noi proporre una serie di esempi per mettere in evidenza
come il principio e i parametri interagiscano fra di loro. Supponiamo che un
uomo buono A sia in difficoltà economica e abbia bisogno di liquidità e
supponiamo che vi sia anche un uomo altrettanto buono B che abbia gli
stessi problemi. Sappiamo che A è per la prima volta in difficoltà dopo aver
vissuto con innumerevoli ristrettezze, mentre B è già indebitato fino al collo
con dei creditori e ha sopportato più a lungo la morsa della povertà. Il
principio (0) sarebbe applicabile se fossimo in un mondo ideale e ci direbbe
di beneficare entrambi, ma nella vita reale il parametro (i) ci indurrebbe a
dare il beneficio a quello che è maggiormente in difficoltà, quindi a B. Il
criterio (ii), poi, ci impone di donare il beneficio il prima possibile, prima
Non a caso nel libro II, 18.4, Seneca ricorda a Liberale che non sta scrivendo il suo
trattato per i saggi ideali, ma per gli uomini comuni che, pur imperfetti dal punto di vista
morale, combattono ogni dì affinché loro guida sia la ragione anziché le passioni. Per
costoro beneficare è un atto che si insinua tra le incombenze pratiche della vita quotidiana,
perciò, dovranno anche disporre di argomenti relativi alla sfera più terrena della loro
esistenza per elargire correttamente un beneficio.

che B ne faccia richiesta. La tempestività del nostro intervento presto
mitigherà le sofferenze di B. Ma sulle tempistiche bisogna anche aver tatto,
e qui entra in gioco il criterio (iii), infatti si deve beneficare al momento
opportuno, quindi in modo corretto: magari quando si è a tu per tu con B,
perché dinanzi ad altre persone il ricevente potrebbe sentirsi in imbarazzo ad
ammettere la sua condizione di difficoltà. Si potrebbe anche beneficare in
silenzio, senza che B se ne accorga. Il criterio (iv) che risponde alla
domanda «per quale motivo dare?» è anch’esso connotato da intenti
pragmatici: si dà a B anziché a X, Y o Z perché a B il nostro dono renderà la
vita nettamente più semplice e piacevole, o perché B saprebbe far fruttare
con maggior profitto il nostro beneficio. Il criterio (v), infine, riguarda le
conseguenze del beneficio: se rispetto a B gli altri si servissero in malo
modo del nostro beneficio o lo si utilizzasse solo in modo parziale, allora
avrebbe conseguenze più felici donare a B piuttosto che a questi altri.

Conclusioni.


In conclusione, si deve tener presente che la morale dei benefici è
un’occasione tanto per il benefattore quanto per il beneficato di essere
virtuosi. Che cos’ha la virtù che tutte le altre cose materiali non hanno?
La virtù in generale e in primo luogo quella della riconoscenza
presenta molti vantaggi, ma non vuole che la si ami per questo: ha in
sé qualcosa di più e non è capita abbastanza a fondo da chi la
considera solo una cosa utile.
Si è detto che per gli stoici il bene è la virtù, ma il bene è soprattutto il λόγος
(logos, cioè razionalità) e l’uomo in quanto animale razionale e politico è
conforme a tale natura. Per condurre una buona vita, quindi, si dovrà vivere
in accordo e coerenza con la natura razionale del mondo quanto di sé. Che
cos’è il di più della virtù indicato da Seneca? È il suo coincidere con la
beatitudo , cioè con la realizzazione naturale dell’uomo in quanto uomo,
ossia dell’uomo in quanto essere perfettamente razionale, dunque virtuoso.

Non a caso «beatus» deriva dal verbo «beo» che significa favorire. L’uomo
beato, felice, è il favorito, quello che diviene pienamente ciò che ha da
essere.

Per Filosomattia.it, Matteo Orilia!

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