Il crepuscolo di Zarathustra: l’apice della vita. Di Nicolas Menghini

tramonto

Sono lieto di presentarvi questo articolo di Nicolas Menghini dedicato al tramonto di Zarathustra. Sono decisamente affascinato da questa tematica presente all’interno di “Così parlò Zarathustra”.

Ora tramonto subito, perché l’articolo è particolarmente interessante e chiaro e non ha quindi bisogno di ulteriori presentazioni!

Vi invito solo a seguire questo link nel caso siate interessati a leggere altri articoli su Nietzsche.

Il direttore, Mattia Mandalà

Il crepuscolo di Zarathustra: l’apice della vita.

Il tramonto è all’apice della giornata; è alla sua cima e guarda dall’alto ciò che è passato.

È una linea di confine, tra la notte e il giorno, e per questo ha assunto una miriade di significati, di interpretazioni, che sono diventati selve che a sua volta, l’hanno coperto di nuovi colori ancora più infuocati.

Tra questi grandi alberi, vi è un eco lontano, un mito greco, che si rimembra nelle pieghe del cielo. Le ninfe del tramonto, le Εσπερίδες, le Esperidi, nate dalla polvere di Έσπερος, Espero, personificazione della più bella stella del cielo che esce la sera, sorvegliano l’albero dai pomi d’oro di Era con Ladone; un albero, i cui frutti sono i più vivi simboli d’amore e fecondità, come la dea stessa: in questo modo il crepuscolo partorisce vita, fa sì che il giorno successivo nasca dalla cenere di fuoco che si stende al suolo del vecchio e ormai antico giorno corrente.

Il tramonto è un donatore, che concede ciò che è più prezioso, il suo sangue, perché può farlo, perché ne è capace, perché qualcosa rinasca dalla notte e dal dormiveglia dei sensi.

In Nietzsche, nel suo “Così parlò Zarathustra” (1883-1885) , l’opera considerata più rappresentativa del filosofo, come un vangelo che subentra al nuovo, si percepisce questo particolare crepuscolo, donativo e mutevole. Nel proemio il profeta persiano, trentenne – cifra rimandante agli anni di Cristo- discende dal monte in cui era stato per dieci anni in solitudine e decide di trasformarsi, di tornare dagli uomini. Così parla al sole:

[…] Guarda! Io sono sazio della mia sapienza, come l’ape del miele di cui ha fatta soverchia provvista; io ho bisogno di mani, che si stendano per coglierla.

Io vorrei donare e distribuire, sino a tanto che i savi tra gli uomini fossero divenuti lieti della loro follìa, e i poveri della lor ricchezza.

Per giungere a tanto devo scendere a basso: come fai tu, quando scomparisci dietro il mare; tu, dispensator di luce anche gli inferi, tu astro straricco!

Io devo, al pari di te, tramontare, per usar un’espressione degli uomini tra i quali voglio recarmi. […]

Perché un profeta dovrebbe tramontare e discendere?

Perché non rimanere come il vegliardo del capitolo successivo, un santo che ama Dio per gli uomini nel suo boschetto isolato? Zarathustra è come il sole, a cui egli sussurra la sua voce dopo tanto risvegliata e riscoperta, e fa ciò che fa il sole: sorge e tramonta.

Egli, troppo pieno di saggezza, dona il suo sapere, non perché deve donarlo, ma perché è pronto per traboccare.

Il dono, che questi fa agli uomini, non è dovuto a un principio morale, ma a una necessità fisica – ogni concetto in Nietzsche deve essere riportato a questo punto fondamentale-. Così il sole scende all’orizzonte, Zarathustra farà lo stesso: è la perfetta rappresentazione del non poter essere altrimenti e del voler non poter essere altrimenti.

La sua natura è legata alla potenza, in latino potis esse, essere capace, quindi capacità e il volere è il lasciare essere la propria capacità. Il profeta vuole affermarsi sul mondo, come qualsiasi altro uomo con la sua natura, perciò questa sua volontà sarà volontà di potenza.

Per comprendere meglio bisogna stabilire tre cose.  Primo, sempre il paragone con il sole: l’astro risplende perché può risplendere e lo vuole e non può volere altro, dato che è inevitabile, ma tutto questo, mi si potrà dare ragione, non è condizionato da un “devi”, un imperativo morale, e né da un “cosi sarà”, un destino.

Secondo, non si deve pensare che Zarathustra decida di essere qualcos’altro donando o semplicemente vivendo questa sua nuova fase, indipendentemente da ciò che è; non esiste una libera scelta per sé o un libero volere, non si può essere altro: da questo punto di vista, si prenda il proprio esempio personale, si può davvero cambiare fino in fondo?

È molto arduo, se non impossibile, ma si può trovare e essere la propria capacità, che sarà anche la vita. Inoltre, terzo, la natura di Zarathustra non è banalmente coincidente con l’istinto – molto spesso si tende a semplificare-: non esiste alcun Io o quello che sarebbe poi venuto, inconscio, ma tutto è unione di pensiero e istinto, che di volta in volta si disvelano nella creazione, il sorgere, e nel distruggere, il tramonto. 

Fin qui abbiamo detto ciò che Nietzsche pensa e  scrive per la civiltà, per i posteri, per chi avrà orecchi per udire, occhi per vedere: non a caso il titolo completo del suo Zarathustra  è un “libro per tutti e per nessuno.”

Ma dobbiamo dire altro; qualcosa che possa anche nutrire noi, non più solo moderni, seppure già questo possa farlo. Anche se il filosofo parlava di pochi uomini eletti, gli Spiriti Liberi, che avrebbero portato all’Übermensch, l’Oltreuomo, nulla ci vieta di interpretare questo tramonto del profeta in una chiave esistenziale e personale perché tutto possa divenire una filosofica psicologia.

Avere potenza, come detto, vuol dire essere nella propria capacità, ma, se questo è vero, non scarteremo qualcosa di tutto ciò che siamo? Quando si scopre qualcosa in una stanza, si deve fare posto per mettere ciò che si è trovati ed è meglio spostare o addirittura buttare certe cose.

Ora, questa similitudine non è delle migliori per spiegare il concetto, ma la sostanza è questa. La volontà di potenza, prima citata, è la vita che interpreta se stessa. Viviamo in un mondo interpretato e per questo creato da noi, siamo artisti che forgiano ciò che ci sta davanti. In tal modo, tutte le più grandi idee non sono altro che il prodotto del nostro corpo, di come noi ci percepiamo  e servono per dare un senso al non senso – cosa che l’uomo non può non fare, come lo stesso Nietzsche afferma in Al di là del bene e del male-.

Tutte queste verità, come credere nella materia, in un fine, in Dio, nella scienza, nella matematica e così via,  se sono interpretazione, sono intrinsecamente false, anche se alcune sono più verosimili di altre.

Sulla volontà di potenza in specifico mi riservo di scrivere in futuro, ma ora basti questo. Bene, ci ricordiamo la stanza? Ecco, immaginiamo che tale stanza siamo noi e che vi siano miriadi di poster attaccati alle pareti con scritto da una parte “Stato”, dall’altra “morale” e via discorrendo.

Il nostro tramonto è strappare ogni poster o riconoscere che quei poster non sono la realtà, di cui ne siamo schiavi passivi, ma sono un’interpretazione della realtà, perché la nostra volontà di potenza vuole se stessa continuamente ed è portata a reinventarsi, perché noi siamo il divenire, la vita che si afferma e che crea, non la staticità, non l’abitudine, come vuole la forma della società. Zarathustra, un fanciullo del crepuscolo, si incenerisce e dalla cenere rinasce, questo è ciò che lo fa grande. Il caos presente nella miglior tragedia, dove Dioniso muove i suoi ebbri fili, la nostra esistenza, sorprendente per la sua imprevedibilità, può portare al tutto dal nulla, più della razionalità, se riconosciuto, se ascoltato, se accettato nella sua totalità del flusso vitale:

“[…] Io dico: bisogna avere ancora il caos in sé per poter partorire una stella danzante […] ibidem, 3

La vita è un continuo tramontare, che porta i nostri valori preesistenti a morire per essere il fondamento di nuovi, e ciò non porti alla nostalgia!

La gioia è ciò che contraddistingue la “trasformazione”, una gaio sorriso, una gaia scienza, per citare il titolo di un’altra opera di Nietzsche, una felice distruzione e rovina di noi stessi. Non si può rimanere nel castello assoluto della verità senza mai metterne in dubbio le sue basi, senza mai vedere una diversa prospettiva e da lì costruire una nuova verità per cui sacrificarsi; un sacrificio scelto per sé e non per gli altri o per altro, autonomo, l’unico possibile. Se tutto questo avvenisse nella realtà, certamente le relazioni interpersonali con le persone non avrebbero tanti problemi, che sentiamo dire, data la non assolutizzazione di ogni nostro giudizio: saremmo fluidi, perché è la fluidità interiore a creare le condizioni per un buon stato sociale, cosa che non è per il nostro, decadente, repressivo e gerarchizzato. Un giorno, si spera, azzanneremo i pomi di Era e nella lotta capiremo il sole, la sua morte e la sua resurrezione.

A cura di Nicolas Menghini

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