L’assenza di Dio. H. ripensa Nietzsche. Di Luis Rega. Capitolo 2!

dio

Sono lieto di presentare il secondo capitolo del meraviglioso elaborato di Luis Rega, dedicato alla morte di Dio e sul concetto di uomo come artefice del creare e della creazione.

Non voglio rubare altro spazio alla sua opera, pertanto vi lascio al suo scritto. Vi consiglio di arrivare fino in fondo, ne vale assolutamente la pena!

Il direttore, Mattia Mandalà

L’assenza di Dio. Heidegger ripensa Nietzsche.

Nel primo capitolo abbiamo parlato dell’impossibilità per l’uomo di essere introdotto nella filosofia, perché già pensatore ma non in senso eminente; quindi per poter pensare autenticamente l’uomo deve essere condotto a pensare dal pensiero dei filosofi e dei poeti, in particolare da quelli che hanno pensato/poetato meglio di altri la questione intorno all’essere, vale a dire Nietzsche e Hölderlin.


Riguardo il primo Martin Heidegger afferma che la forma poetica in “Così parlò Zarathustra” serva ad esprimere il suo pensiero fondamentale, l’eterno ritorno, pensiero che si pone a conclusione della metafisica occidentale e che è espresso mediante la poesia, proprio come la metafisica era nata: con i miti di Platone.
Veniamo ora a noi, al secondo capitolo “l’assenza di dio”.

Heidegger entra nel merito della questione riguardante “la《creazione》degli dei da parte degli uomini”, con un citazione nietzschiana:

quasi due millenni e non un solo nuovo dio.

Nietzsche

Questa frase è all’interno de “L’ Anticristo“, pensato come il primo volume di un’opera, composta da quattro libri, dal titolo “Transvalutazione di tutti i valori”
Ritornando alla frase, essa non ci dice solo che “Dio è morto”, frase ultranota del nichilista, bensì che l’Occidente europeo non era stato capace, in altri due millenni dalla sua creazione, di “creare” un nuovo dio (Neuen Gott).

Allorché Heidegger esplica che per Nietzsche

gli dei vengono《creati》dagli uomini.

Nietzsche

ossia “creati” in base alla corrispettiva attitudine religiosa detenuta dai popoli che li “creano”, in particolare Nietzsche critica agli europei del Nord, il fatto che da quando hanno accolto il dio cristiano (“prodotto della décadence”), il quale instilla, come se fossero valori, le debolezze umane, essi non sono stati in grado di “creare” nessun’altro dio.

Qui, prima di fare delle conclusioni, occorre dire che ciò che importa cogliere non è tanto la qualità dell’attitudine, se umana o ispirata dal dio, quanto il fatto che l’uomo è concepito da Nietzsche come “creante” e che questa creatività è insita nell’uomo.

Ora bisogna chiarire che per Nietzsche non solo Dio e gli dei sono “creati” dall’uomo ma è “creato” da egli “tutto ciò che è”.

Secondo Heidegger ciò è deducibile da una nota in “Volontà di potenza”:

tutta la bellezza e la sublimità che abbiamo prestato alle cose reali e immaginarie, io voglio rivendicarla come proprietà e prodotto dell’uomo.

Nietzsche

Insomma, Nietzsche rivendica la produzione della bellezza all’uomo, poiché tale “produzione” è propria dell’uomo stesso.

In opinione di Friedrich Nietzsche, l’uomo è concepito non solo come poeta-pensatore ma soprattutto come dio.
A questo punto Heidegger rimarca che per Nietzsche lo stesso concetto di “potenza” sia identificabile con quello di “volontà di potenza”. Questa potenza dell’uomo si riscontra nella poesia, anzi è espressa nel pensare, anzi essa è proprio la deità del dio. Quindi questa volontà è, secondo il filosofo ottocentesco, anche l’amore, poiché essa è, si vede, in tutto ciò che è riconducibile alla parola “uomo” (der Mensch).


Tale volontà/potenza soggiace in tutto ciò che fa parte della forma di uomo (μορφή τοῦ ανθρώπου), che cosa significa? Che se la volontà di potenza è l’essenza dell’essente, essa si declina nell’uomo nella forma di “creatività”, perché “l’essenza dell’uomo” è la “creatività”.
È l’uomo ad essere “il creante”, ma di che cosa? Cosa l’uomo “crea” ? Per Nietzsche la risposta è totalizzante: “tutto ciò che è”.


Tutto l’essere è secondo Nietzsche “un’unica antropomorfia”. Possiamo dire dunque che l’essere è concepito dall’uomo secondo la forma stessa dell’uomo? Non è proprio così, Heidegger si concentra su un’altra parola, quella di “genio”: grazie al termine latino “genio” possiamo evincere “l’origine storica dell’antropomorfia e del suo nucleo metafisico”, ossia questa “forma dell’uomo” nasce storicamente con la metafisica, la filosofia che va oltre la natura fisica, ultrasensibile perché va oltre i sensi. Così si può concludere che il pensiero dell’uomo è il “genio” stesso dell’uomo poiché la genialità, in quanto creatività, è il segno distintivo dell’uomo.

A questo punto c’è da chiedersi come va il verbo “creare”, per come lo usa Nietzsche e cosa si intende per “uomo creante”. Heidegger, prima di fornire una risposta, fa un breve accenno all’uomo moderno, perché egli intende la sua creatività diversamente da come Nietzsche intende la creatività dell’uomo, ossia nel senso del greco antico ποιεῖν.


Per Heidegger l’uomo moderno “si vuole creante” in due sensi: creante perché agisce in modo creativo e creante perché è un lavoratore della materia. Tale cambiamento della concezione dell’essenza umana come soggettività, si è avviato nel Rinascimento, periodo che disse di aver ripreso tale essenza creativa dell’uomo dall’antichità greco-romana, così pensatori e poeti, politici e artisti, greci sono stati considerati alla stregua di uomini “creativi”.

Al che Heidegger replica a questa convinzione con una dichiarazione sorprendente

ma se i greci si fossero dedicati a creare una “cultura” [Kultur], non sarebbero mai divenuti quello che sono.

Heidegger

Se gli antichi greci si fossero soffermati a creare questa cultura antropocentrica e soggettiva (che in realtà è moderna), essi non avrebbero mai avuto una concezione teofanica della realtà, vale a dire una realtà dove gli dei si manifestano continuamente, nella loro mentalità, in effetti, il divino pervade la realtà.

Senza tale mentalità essi non sarebbero stati quello che sono stati, diversamente da come sono stati interpretati. In seguito, Heidegger si sofferma sul significato dell’infinito greco “ποιεῖν” (“creare”), ripercorrendo l’etimologia della parola dal suo esito finale, l’italiano “poesia” dal greco “ποίησις”.


La risposta heideggeriana non è quella comune che ci si aspetterebbe: “ποιεῖν” non significa “fare” né “creare” né “fare” nel senso di “creare”, di conseguenza “ποίησις” (“poesia”, “composizione”) non significa “creazione” nell’accezione moderna del termine, ma occorre considerarla secondo l’esperienza greca dell’essere.

Quindi non creazione nel senso moderno del termine, quello stesso senso che vede l’uomo pari ad un dio, sostituendosi al concetto stesso di “Dio”, ma creazione nel senso di rivelazione, disvelamento.

Heidegger approfondisce il discorso: l’essente secondo gli antichi Greci è “il presenziante che sta […] dentro l’inascoso”, vale a dire che nell’essere c’è qualcosa (l’essente) che è nascosto dietro la cortina dell’apparenza, sotto il velo di un’illusoria realtà.

Ecco che capiamo allora il significato di “ποιεῖν”, “pro-durre”, ossia condurre fuori dall’ascoso (nascosto). Heidegger ricorda che questo concetto si ritrova in una parola tedesca “her-vor-bringen”, in cui “her” (“ex”) “dal”, “vor” (“pro”) “avanti”, “bringen” (“durre”) “portare”, il che dà come risultato: “dal nascosto porto nell’inascoso”. ποιεῖν significa infine ex-pro-durre: conduco l’essente fuori dal nascosto fino a renderlo presente.


Heidegger dichiara a tal proposito che quello che noi oggi consideriamo “creare artistico” è per gli antichi Greci un ποιεῖν.


Nel ποιεῖν vige il farsi carico di ciò che succede all’uomo riferendosi a lui.

Heidegger


In sintesi, in questo processo creativo l’essente si svela, si rivela, si porta alla presenza e si espone in offerta.
Martin Heidegger conclude dicendo che questa azione del ποιεῖν, ossia del condurre fuori e poi avanti, fa emergere l’essere, ciò che è, e alla fine mostra, una volta disvelato, l’essente per come è.
Ma poi il filosofo ammonisce che se questo pro-durre insiste solo sul nuovo, allora esso perde la sua essenza di ποίησις e diventa

l’azione sovrastante-sovrana di quell’umanità che si gode la vita fuori se stessa” e così “attesta se stessa davanti a sé.

Heidegger

Heidegger definisce questo tipo di umanità “l’umanità della soggettività”, ovvero un’ umanità il cui agire si ostina ad eseguire il sempre più nuovo, in un’epoca definita “età moderna” (Neuzeit), cioè un’ epoca che non sa con quale nome è chiamata.


Mentre la ποίησις va intesa in rapporto all’ αλήθεια (“verità”), a qualcosa che (α privativo + λανθάνω “nascondere”) non è più celato, a qualcosa che si disvela. Ecco perché la ποίησις è il processo di disvelamento, dell’estrazione della verità occultata. Una concezione tipica della grecità, mentre la concezione che vede l’essenza umana essere quella creativa-lavorativa è squisitamente moderna.

Comprendiamo ora le parole di Nietzsche in questo senso: anche oggi l’uomo moderno credendosi il dio del mondo e il suo stesso dio ha dimenticato il suo potere divino, la sua deità, quella di scoprire l’entità divina. Ecco cosa l’uomo non è stato capace di rivelare per due millenni, una nuova divinità, ecco quale è l’essenza dell’uomo (dell’Esserci) quella di scoprire l’essere. Per questo motivo Nietzsche è un filosofo-poeta: per essere un pensatore autentico, per essere un indagatore della realtà.

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